LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento camerale n.
320/2013 V.G., avente ad oggetto: equa riparazione ex L. n.  89/2001,
ad istanza di Barillaro Teresa,  nata  a  Messina  il  15/04/1972,  e
Barillaro Nicola, nato a Messina  il  20/08/1970,  entrambi  n.q.  di
eredi di  Barillaro  Ferdinando,  rappresentati  e  difesi  dall'avv.
Antonino Mazzei, PEC: avvantoninomazzei@puntopec.it, per  mandato  in
atti, domiciliati in Reggio Calabria, Piazza Castello  presso  questa
Cancelleria, ricorrenti; 
    Contro Ministero della Giustizia, in  persona  del  Ministro  pro
tempore, rappresentato e difeso  dall'Avvocatura  Distrettuale  dello
Stato presso i cui uffici alla Via del Plebiscito  n.  15  in  Reggio
Calabria e' domiciliato ope legis, resistente. 
    Visto il ricorso proposto in data 13 novembre 2013  da  Barillaro
Teresa e Barillaro Nicola, n.q. di eredi di Barillaro Ferdinando, con
il quale viene richiesto l'indennizzo per l'irragionevole durata  del
giudizio civile svoltosi dinanzi alla  Pretura  di  Messina,  sezione
distaccata di  S.  Teresa  di  Riva  (iscritto  al  n.  74/94  RGAC),
conclusosi con sentenza della Corte di Appello  di  Messina,  sezione
lavoro n. 797/13 del 17/05/2013; 
    Vista la documentazione allegata, osserva. 
    1. - La fattispecie. 
    Il giudizio presupposto e'  stato  definito  con  sentenza  della
Corte di Appello di Messina, sezione lavoro n. 797/13 del 17/05/2013,
che ha respinto l'appello di Barillaro Ferdinando, dante causa  degli
attuali ricorrenti, confermando la sentenza di primo  grado  (Pretura
di Messina, sezione distaccata di S. Teresa di Riva  del  10/03/1994)
che respingeva la domanda del Barillaro. 
    2.  -  La  disciplina  applicabile  alla  fattispecie.  La  norma
censurata. 
    Reputa questo decidente che la nuova disciplina dettata  in  tema
di equa riparazione per effetto delle modifiche introdotte alla legge
24 marzo 2001, n. 89, dall'art. 55 del decreto-legge 22 giugno  2012,
n. 83 (recante Misure urgenti per la crescita del Paese: c.d. decreto
Sviluppo),  convertito  in  legge  7  agosto  2012,  n.  134,  e   in
particolare la norma, decisamente  innovativa,  contenuta  nel  nuovo
art. 2-bis, comma 3, l. n. 89/2001 (a mente della quale,  «la  misura
dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo'  in  ogni  caso
essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello  del
diritto accertato dal giudice»), debba necessariamente portare a  non
riconoscere, in tal  caso,  in  alcuna  misura,  il  preteso  diritto
all'indennizzo. 
    2.1. - Prima di concentrare l'attenzione  su  tale  disposizione,
giova prendere le mosse da altra previsione che vale a  delineare  un
piu' ampio e coerente quadro di riferimento, anche se di per se'  non
ancora decisivo ne' univoco nel senso sopra indicato: ci si riferisce
alla previsione di cui all'art. 2-bis, comma 2, lett.  a),  l.  cit.,
secondo la quale «... l'indennizzo e' determinato tenendo  conto:  a)
dell'esito del processo nel quale si e' verificata la  violazione  di
cui al comma 1, dell'art. 2 ...». 
    Onde apprezzarne la portata innovativa, e' bene  rammentare  che,
con riferimento alla previgente normativa, nella giurisprudenza della
Corte di Cassazione (conformemente alla  giurisprudenza  della  Corte
E.D.U.), posta la regola  del  riconoscimento  del  diritto  all'equa
riparazione a tutte le  parti  del  processo  «indipendentemente  dal
fatto che esse siano  risultate  vittoriose  o  soccombenti  e  dalla
consistenza  economica  ed  importanza  del  giudizio»  e   precisata
altresi'  l'irrilevanza  della  «asserita  consapevolezza  da   parte
dell'istante della scarsa probabilita'  di  successo  dell'iniziativa
giudiziaria» (v. ex aliis Cass. 12 aprile 2010,  n.  8632;  9  aprile
2010, n.  8541),  si  ammette  bensi'  che  dell'esito  del  processo
presupposto possa comunque tenersi conto ma  solo  qualora  abbia  un
indiretto  riflesso  sull'identificazione,  o   sulla   misura,   del
pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell'eccessiva
durata della causa, come accade «quando il soccombente abbia promosso
una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo
fine di perseguire proprio il perfezionamento  della  fattispecie  di
cui  al  richiamato  art.  2»,  precisandosi  inoltre  che  di  dette
situazioni, «costituenti abuso del  processo»  anche  ai  fini  della
commisurazione   dell'indennizzo,   «deve   dare    prova    puntuale
l'Amministrazione» non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione
che la  domanda  della  parte  sia  stata  dichiarata  manifestamente
infondata» (v. ex multis, da ultimo, Cass. 9 gennaio 2012, n. 35). 
    A fronte di un indirizzo cosi' strutturato, la portata innovativa
della previsione di cui all'art. 2-bis comma 2, lett. a) si  apprezza
sotto un duplice profilo. 
    Anzitutto  perche'  la  considerazione  dell'esito  del  giudizio
assume,  nella  nuova  disciplina,  bensi'   ai   soli   fini   della
quantificazione dell'indennizzo, un ruolo  non  piu'  eccezionale  ma
normale, fisiologico e soprattutto  sganciato  dalla  condizione  che
esso  si  accompagni  anche  alla  consapevolezza  della   parte   e,
correlativamente, ad un uso strumentale del processo. 
    In secondo luogo, perche' non puo' considerarsi piu'  necessario,
affinche' l'esito del giudizio  possa  assumere  un  ruolo  riduttivo
dell'indennizzo, che lo stesso (e soprattutto  l'abuso  del  processo
alla base di esso richiesto) sia oggetto di un onere di allegazione e
prova da parte dell'amministrazione, potendo e dovendo il giudice  ex
se - tanto piu' nel nuovo modello  procedimentale  a  contraddittorio
eventuale  -  sindacare  e  ponderare  l'esito  del  giudizio   quale
risultante dagli atti prodotti. 
    2.2. - Nella stessa direzione si inserisce, ma con portata  ancor
piu' dirompente, la previsione qui censurata contenuta  nel  comma  3
del  nuovo  art.   2-bis,   a   tenore   della   quale   "la   misura
dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo'  in  ogni  caso
essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello  del
diritto accertato dal giudice". 
    2.2.1. - La previsione pone, anzitutto,  un  ancor  piu'  stretto
legame tra valore della causa ed equa riparazione, stabilendo che  il
primo rappresenta un limite per il secondo. 
    In tale parte essa da' espressione ad una convinzione  di  comune
buon senso particolarmente avvertita per le cause  bagattellari:  e',
infatti, inimmaginabile che per l'eccessiva durata di un processo nel
quale tuttavia si verta di beni  o  somme  per  un  valore  di  poche
centinaia o addirittura poche decine di euro,  possa  mai  presumersi
una sofferenza morale o paterna d'animo tale da  meritare  indennizzi
di euro 750 o anche solo 500 per ogni anno di ritardo. 
    2.2.2. - La norma,  pero',  va  al  di  la'  di  tale  equazione,
giungendo - nella seconda parte - a stabilire  che  l'indennizzo  non
possa essere superiore nemmeno al "valore del diritto  accertato  dal
giudice", ove questo risulti inferiore al valore  della  causa.  Alla
stregua di tale disposizione l'esito della causa assume,  dunque,  un
rilievo ben maggiore di quello di mero  parametro  di  commisurazione
dell'indennizzo tra il minimo di euro 500 e il massimo di  euro  1500
per anno o frazione di  anno  stabiliti  dal  primo  comma  dell'art.
2-bis, imponendo una liquidazione anche al di sotto  di  tale  limite
("anche in deroga al comma l", precisa la  norma)  ove  inferiore  ad
esso sia appunto il valore del diritto accertato dal giudice. 
    Il significato oggettivo di tale disposizione induce, come detto,
a ritenere che nulla possa  essere  liquidato  nel  caso  in  cui  il
diritto fatto valere in giudizio sia giudicato inesistente,  finendo,
di fatto, a condizionare all'esito almeno  in  parte  vittorioso  del
giudizio  presupposto  l'accoglibilita'   della   domanda   di   equa
riparazione per l'irragionevole durata dello stesso. 
    Sul piano logico, infatti, non sembra contestabile che, almeno ai
fini della norma in esame, l'accertamento negativo della  sussistenza
di un diritto equivale all'accertamento che il diritto  fatto  valere
in giudizio e' inesistente  (e  come  tale,  per  cosi'  dire,  "vale
zero"). 
    Non puo' sfuggire pertanto il paradosso (ed anche  la  violazione
del  fondamentale  parametro  di  cui  all'art.  3  Cost.)   cui   si
incorrerebbe a ritenere che, posto il valore  della  causa  uguale  a
100: a) in caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile  un
indennizzo non maggiore di 10; b) in caso di radicale  rigetto  della
domanda, sia invece liquidabile un indennizzo maggiore fino al limite
di 100. Occorrerebbe presumere  cioe',  ma  non  si  vede  con  quale
plausibilita' logica, che la durata irragionevole  del  processo  sia
fonte per la parte di sofferenza morale maggiore in  caso  di  totale
rigetto della sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento. 
    2.3.  -  E'  tutt'altro  che  certo,  peraltro,  che   una   tale
interpretazione  della  norma,   fondata   sulla   sua   insuperabile
formulazione letterale,  vada  oltre  l'intenzione  del  legislatore,
potendosi rinvenire da altre  parti  della  novella  indici  alquanto
significativi nella medesima direzione. 
    Tali sono anzitutto le  disposizioni  che  escludono  il  diritto
all'indennizzo in caso di esito del giudizio conforme  alla  proposta
conciliativa o a quella ricevuta in sede di mediazione (art. 2, comma
2-quinquies, lett. b, c): ipotesi queste ultime rispetto  alle  quali
l'avere agito infondatamente in giudizio costituisce  sicuramente  un
minus (dal  punto  di  vista  del  riconoscimento  che  nel  giudizio
presupposto hanno ricevuto le ragioni fatte valere dalla parte). 
    Ma rilievo convergente deve darsi anche: 
        -  alla  gia'  vista  disposizione  che  indica  l'esito  del
processo tra i parametri cui aver  necessariamente  riguardo  per  la
commisurazione dell'indennizzo; 
        - alla modifica dell'art. 4  che  ha  reso  improponibile  la
domanda  anteriormente  alla   conclusione   del   procedimento   con
provvedimento definitivo; 
        - alla norma contenuta nel novellato art. 3 comma 3, lett. c)
che impone al ricorrente di depositare, unitamente al ricorso,  copia
autentica della sentenza o ordinanza irrevocabile che ha concluso  il
giudizio. 
    L'importanza che - come da tali  ultime  modifiche  si  trae  con
evidenza -  viene  attribuita  al  fatto  che  il  giudice  dell'equa
riparazione sia posto in condizione di conoscere  l'esito  definitivo
del  giudizio,  non  altrimenti  puo'  spiegarsi  se   non   con   il
preponderante rilievo attribuito dal  legislatore  nazionale  a  tale
aspetto  della   vicenda,   quale   parametro   determinativo   della
liquidazione dell'indennizzo. 
    Indiretta conferma della ragionevolezza di  tale  interpretazione
si trae, infine, dalla relazione al disegno di legge di  conversione,
e in particolare dall'osservazione ivi contenuta secondo cui  tra  le
finalita' della riforma vi e' quella di "non allargare le  maglie  di
un bacino di domanda di giustizia  suscettibile  di  distorsioni  che
sono gia' presenti nell'attuale sistema (in cui accade che una  causa
venga instaurata, al  di  la'  della  fondatezza  della  pretesa,  in
funzione del conseguimento del successivo indennizzo spettante per la
violazione del  termine  di  durata  ragionevole  del  processo,  dal
momento che la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha  piu'  volte
affermato che l'indennizzo in parola spetta anche alla parte  rimasta
soccombente nel processo «presupposto»)". 
    Tale passaggio sembra invero tradire la piena  consapevolezza  da
parte del legislatore che il  principio  da  sempre  affermato  nella
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, in  piena  adesione  alla
stessa, in quella della  Corte  di  Cassazione,  secondo  cui  l'equa
riparazione spetta anche alla parte pienamente soccombente, e'  causa
di distorsioni nel funzionamento e nell'impostazione  teorica  stessa
dei fondamenti e della natura del diritto all'equa riparazione. 
    Secondo la  relazione,  la  riforma  non  interverrebbe  su  tale
distorsione  ma  si  limiterebbe  a  perseguire  l'obiettivo  di  non
allargarne le maglie. Alla stregua pero' di quanto sopra si e' detto,
gli  strumenti  di  fatto  introdotti  e  da  ultimo   analizzati   -
prescindendo del tutto, nell'attribuire il  visto  rilievo  all'esito
del giudizio, dall'accertamento dell'esistenza  di  un  atteggiamento
negligente,  strumentale  o  abusivo  a  fondamento   della   domanda
rigettata o della resistenza a quella interamente accolta -  appaiono
oggettivamente idonei anche a  contrastare  in  radice  il  principio
suddetto. 
    2.4. - Non ignora questo decidente che indice di segno  contrario
e' rappresentato dalla previsione, contenuta  nel  comma  2-quinquies
lett. a) dell'art. 2 l. Pinto,  secondo  la  quale  non  puo'  essere
riconosciuto alcun  indennizzo  in  favore  della  parte  soccombente
"condannata a norma dell'articolo 96 del codice di procedura civile". 
    Alla  stregua  di  tale  disposizione,  affinche'   sia   escluso
l'indennizzo dovrebbe concludersi  che  non  possa  bastare  la  mera
soccombenza, occorrendo che la parte soccombente sia stata condannata
per responsabilita' processuale aggravata. L'argomento,  in  effetti,
e' tutt'altro che debole,  ma  ancor  piu'  difficilmente  superabile
rimane l'ostacolo rappresentato dalla soglia del valore  del  diritto
accertato chiaramente dettata come  soglia  alla  liquidazione  dalla
disposizione  qui  censurata   che,   pur   dedicata   alla   "misura
dell'indennizzo" e non ai presupposti dello stesso,  finisce  con  il
pesare maggiormente della prima in sede applicativa,  non  vedendosi,
infatti, come giustificare e come parametrare l'indennizzo in  favore
del soccombente in modo coerente con tale limite. 
    Meno cogente appare, invece, sul piano applicativo, la  norma  di
cui all'art. 2, comma 2-quinquies lett. a), la quale, a  ben  vedere,
si limita a identificare un gruppo di ipotesi (giudizi presupposti in
cui la parte che richiede l'indennizzo sia  risultata  soccombente  e
sia stata anche condannata per responsabilita' processuale aggravata)
all'interno di un gruppo di ipotesi piu' ampio  (giudizi  presupposti
in cui la parte che chiede  l'indennizzo  sia  risultata  interamente
soccombente), riferendo solo al primo  circoscritto  sottoinsieme  il
previsto   effetto   dell'esclusione,   a   priori,    del    diritto
all'indennizzo per l'irragionevole durata del processo. 
    In mancanza di altro indice normativo e' evidente che il criterio
interpretativo  dell'argomento  a  contrario  varrebbe  da   solo   a
dimostrare che per tutte le  altre  ipotesi  rientranti  nell'insieme
piu' ampio, ma non nel sottoinsieme piu' ridotto, la mera soccombenza
non possa  di  per  se'  ritenersi  motivo  di  esclusione  dall'equa
riparazione. 
    Detto altro indice normativo pero' esiste,  ed  e'  rappresentato
per l'appunto dalla norma qui censurata. 
    Questa invero ha evidentemente uno spettro di azione piu'  ampio,
capace di investire, sia pure come detto non riguardando in  astratto
i presupposti del diritto all'indennizzo ma incidendo piuttosto sulla
concreta commisurazione dello stesso, l'intero e piu' ampio gruppo di
ipotesi sopra considerato e di farlo  altresi',  in  ragione  di  una
formulazione testuale evidentemente non  ben  ponderata,  in  termini
cosi' radicali da privare di fatto la distinzione tra le due  ipotesi
se non di senso, certamente di ogni pratica utilita'. 
    Le rationes sottese alle due  norme  sono,  infatti,  chiaramente
diverse: per la prima essendo rappresentata dalla  impossibilita'  di
ipotizzare una qualunque sofferenza morale per l'irragionevole durata
del processo in presenza di un comprovato atteggiamento strumentale e
abusivo della parte, per la seconda essendo invece  rappresentata  da
una esigenza di porre un limite razionale alla valutazione del danno,
pur  a  priori   non   escluso,   e   alla   correlata   liquidazione
dell'indennizzo. Lo  strumento  prescelto  per  fissare  tale  ultimo
limite si rivela,  pero',  evidentemente  piu'  potente  rispetto  ai
limitati obiettivi per i quali  era  stato  probabilmente  pensato  o
entro i quali puo' comunque ritenersi giustificato  in  relazione  ai
parametri accettati nella giurisprudenza europea, finendo come  detto
ad abbassare la soglia dell'indennizzo fino ad annullarlo  del  tutto
nel caso della soccombenza. 
    A  tutto  concedere  non  puo'  non  registrarsi  un   insanabile
contrasto, quantomeno agli effetti pratici, tra le due norme, il  che
pero',  lungi  dal  poter  autorizzare  l'interprete   a   una   mera
disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto
con   la   prima,   ne   rafforza   piuttosto    il    sospetto    di
incostituzionalita'. 
    Non  si   conoscono   comunque   orientamenti   giurisprudenziali
favorevoli a riconoscere il diritto all'equa  riparazione,  sotto  il
vigore della nuova disciplina, alla parte  soccombente  del  processo
presupposto, registrandosi  piuttosto,  al  contrario,  gia'  diverse
pronunce di rigetto (v. ex aliis App. Bari, decr. 25 settembre  2012,
nel proc. n. 547/12 V.G; Id., decr. 6 novembre  2012,  nel  proc.  n.
610/12 V.G.; Id., decr. 6 novembre 2012, nel  proc.  n.  613/12  Id.,
decr. 15 gennaio 2013, nel proc. n. 641/12 V.G.; App.  Caltanissetta,
decr. 7 febbraio 2013). 
    3. - Il parametro costituzionale di riferimento. La  rilevanza  e
la  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale. 
    Il dubbio di costituzionalita' della norma suindicata  nasce  dal
contrasto della stessa con l'art. 6, § 1, della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre  1950,  come  interpretata
dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, nella
misura in cui tale norma, nella detta interpretazione,  puo'  e  deve
intendersi assurta  a  parametro  di  costituzionalita'  della  legge
interna per effetto del richiamo operato dall'art. 117 Cost. 
    3.1. - Al riguardo e' opportuno anzitutto brevemente tratteggiare
le coordinate giuridiche entro  le  quali  questo  decidente  ritiene
doversi muovere nel districarsi tra i rapporti tra  norme  interne  e
norme CEDU: 
        i)  prima  regola  deve  considerarsi  quella  (costantemente
affermata dalla Corte di Cassazione a partire  dalle  pronunce  delle
Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339,  n.  1340  e  n.
1341 e quindi avallata anche dalla  Corte  Costituzionale  a  partire
dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e  con  numerose
successive pronunce, sino, da ultimo, all'ordinanza 7 giugno 2012, n.
150) secondo cui il giudice comune ha  il  dovere  di  «applicare  il
diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di  «interpretare
detta legge in modo conforme alla  CEDU  per  come  essa  vive  nella
giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo  la  costante
giurisprudenza  costituzionale,  il  giudice  comune  deve  anzitutto
individuare la norma della Convenzione applicabile  alla  fattispecie
sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla
disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma  CEDU
quale risulta dall'interpretazione della  Corte  di  Strasburgo,  (v.
Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 contenente una  completa  rassegna
delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n.  348
e n. 349 del 2007, hanno affermato detto principio).  Egli  non  puo'
«sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di
Strasburgo», che  deve  applicare  nel  significato  attribuitole  da
quest'ultima, avendo  tuttavia  riguardo  alla  «sostanza  di  quella
giurisprudenza»,  e  dunque  potendo  in  tal  senso  giovarsi  degli
specifici margini di apprezzamento  riservati  al  giudice  nazionale
(Corte cost. 26 novembre 2009, n. 311; 22 luglio 2011, n. 236, cit.); 
        ii) tale dovere opera «"per quanto possibile", e quindi  solo
nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia  resa  possibile
dal testo della stessa legge»,  che  il  giudice  non  puo'  violare,
essendo ad essa «pur sempre soggetto», con la conseguenza che qualora
rilevi un contrasto della norma interna con la  norma  convenzionale,
al quale non possa porre rimedio mediante l'interpretazione conforme,
e' tenuto a sollevare questione di legittimita' costituzionale  della
prima, in riferimento all'art. 117, primo comma,  Cost.,  poiche'  e'
privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in  tal
senso, proprio in materia di equa riparazione, Cass. 11  marzo  2009,
n. 5894). 
    Siffatti principi, dopo  l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da  una  serie
di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011,
n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile  2010,
n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi,  sono  stati  ribaditi,  quanto
all'inesistenza del potere del  giudice  comune  di  disapplicare  la
norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza
11 marzo 2011, n.  80,  i  cui  principi  sono  stati  confermati  da
successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011,  n.  303;  22  luglio
2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze
8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di  recente,  hanno
ricevuto il conforto della Corte di  giustizia  (sentenza  24  aprile
2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo  la  quale  «il  rinvio  operato
dall'articolo 6, paragrafo 3, TUE alla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al  giudice  nazionale,
in caso di conflitto tra una  norma  di  diritto  nazionale  e  detta
Convenzione,   di   applicare   direttamente   le   disposizioni   di
quest'ultima,  disapplicando  la  norma  di  diritto   nazionale   in
contrasto con essa»). 
    3.2. - Orbene, le esposte coordinate non  possono  che  condurre,
con riferimento alla questione descritta, ad investire  della  stessa
la Corte Costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti
dall'art.  23  legge  11.3.1953  n.  87,  ossia  la  rilevanza  della
questione ai fini della decisione sulla proposta  domanda  e  la  non
manifesta infondatezza della stessa. 
    Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la  norma
additata a sospetto ha una diretta incidenza  nella  decisione  sulla
proposta  domanda  di  equa  riparazione:  se  ne   fosse,   infatti,
confermata  la  legittimita'  costituzionale  in  applicazione  della
stessa la domanda (come in altri casi analoghi e'  stato  deciso  nei
precedenti  citati)  andrebbe  rigettata;  in  caso  contrario   essa
andrebbe accolta, salvo solo una  commisurazione  tendenzialmente  al
minimo dell'indennizzo spettante, all'interno del range  fissato  nel
primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre  il  limite  rappresentato
dal valore della causa. 
    Quanto alla sua  non  manifesta  infondatezza  la  stessa  appare
altresi' piu' che fondatamente predicabile, atteso che, da  un  lato,
non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto  della  norma  interna
(ripetesi, art. 2-bis comma 3, ultimo  inciso,  l.  89/2001)  con  la
giurisprudenza della Corte europea  sul  tema,  dall'altro,  si  deve
anche escludere  la  possibilita'  di  una  diversa  interpretazione,
costituzionalmente orientata, della norma interna. 
    3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto  della  norma  con  la
giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha  sempre
sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' e
per  se'  considerata,  ai  fini  del  diritto   alla   «satisfaction
equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che
la parte,  indipendentemente  dall'esito  della  causa,  ha  comunque
subito una diminuzione della qualita' della vita in  conseguenza  dei
patemi d'animo sopportati durante il  lungo  arco  temporale  che  ha
preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v.
ex  aliis  Corte  europea  diritti  dell'uomo,  19   febbraio   1992,
Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recueil 1998, I, p.  132,  che,  in  un
caso in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al diritto
di visitare i propri figli, dati in affidamento, ha riconosciuto alla
ricorrente la somma di 10.000 corone titolo di  "equa  soddisfazione"
ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le  restrizioni  in
questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). 
    Un siffatto principio e'  da  sempre  stato  ribadito,  sotto  il
vigore  della  previgente  disciplina,  dalla  Corte  di   Cassazione
essendosi da sempre affermato - come gia' visto - che  il  danno  non
patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del  processo  ovvero
dall'elevata possibilita'  del  rigetto  della  domanda  e  che,  per
ritenere  infondata  la  domanda,  occorre,  come  pure  sopra   gia'
accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o
comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass.  12
aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile 2010, n. 8541), del  quale  deve
dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19  gennaio
2010, n. 819). Secondo la Corte di Cassazione, per negare l'esistenza
del danno, puo' bensi' assumere  rilievo  la  "chiara,  originaria  e
perdurante certezza sulla inconsistenza" del diritto fatto valere nel
giudizio, con l'avvenenza  che  non  "equivale  a  siffatta  certezza
originaria  la  mera  consapevolezza  della  scarsa  probabilita'  di
successo della azione" (Cass.  2  aprile  2010,  n.  8165;  2008,  n.
24269). 
    Il    descritto    quadro     internazionale,     normativo     e
giurisprudenziale,   di    riferimento    non    puo'    considerarsi
rilevantemente  mutato,  per  il  profilo   in   esame,   a   seguito
dell'entrata in vigore, il 1° giugno 2010, del nuovo art. 35  co.  3°
lett. b) della Convenzione EDU, che consente al giudice di Strasburgo
di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex art. 34  per  il
quale il ricorrente non abbia  subito  alcun  pregiudizio  rilevante,
salve le ipotesi (c.d. clausole di salvaguardia) di mancato esame del
caso da parte  del  giudice  nazionale,  oppure  di  compressione  di
diritti umani convenzionali. 
    Occorre al  riguardo  osservare  che  i  contorni  e  i  riflessi
operativi  di  una  tale  condizione  di  ricevibilita'  (comunemente
definita de minimis non curat praetor  e  finalizzata  a  ridurre  il
contenzioso su violazioni di minima  entita')  non  risultano  ancora
chiari e consolidati. 
    A quanto consta, le uniche applicazioni sono state fatte: a)  per
escludere il diritto all'equa riparazione in relazione  alla  equita'
di un procedimento penale conclusosi con  la  condanna  a  multa  per
€ 150,00 oltre ad € 22,00 per spese e al ritiro  di  un  punto  dalla
patente di  guida  (sent.  19.10.2010,  Rinck  c.  Francia);  b)  per
escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato  per  la  durata
irragionevole di un  processo  penale  conclusosi  pero',  proprio  a
ragione  della  sua  durata,  con  il  proscioglimento  dell'imputato
medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto  idonea
ad integrare una compensatio lucri cum damno a favore del  ricorrente
(Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia: in tale caso tuttavia la
Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano  al  pagamento  di
una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per
il danno morale subito dal  ricorrente  per  l'eccessiva  durata  del
procedimento ex lege Pinto). 
    In altra sentenza infine,  la  Corte  di  Strasburgo,  dopo  aver
rilevato  che  la  giurisprudenza,  ancora  limitata,  fornisce  solo
parzialmente i criteri che permettono di verificare se la  violazione
del diritto abbia  raggiunto  'la  soglia  minima'  di  gravita'  per
giustificare un esame da parte di un giudice internazionale"; che "la
valutazione di questa soglia e', per sua natura, relativa  e  dipende
dalle circostanze del caso di specie" (§ 33);  che  occorre  comunque
"tener conto dei seguenti elementi: la  natura  del  diritto  che  si
presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata
nell'esercizio di un  diritto  e/o  le  eventuali  conseguenze  della
violazione sulla situazione personale del ricorrente" (§ 34) (ma - si
aggiunge  nella  sentenza  Gagliano,  cit.,  §  55  -  anche   "della
percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva
della controversia"), ha poi affermato il principio  secondo  cui,  a
fronte di una grave violazione del principio  di  durata  ragionevole
del processo, "l'entita' della causa  innanzi  ai  giudici  nazionali
puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il  valore  sia
modico o irrisorio" (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti  c.  Italia,  §
35). 
    A ben vedere nulla autorizza a ritenere che  una  tale  clausola,
essendo rapportata a parametri ulteriori e  diversi  dal  mero  esito
della causa e legati piuttosto alla  considerazione  delle  variabili
circostanze del caso  concreto,  possa  di  per  se'  comportare  una
revisione  dei  descritti  parametri  talmente  radicale  da  potersi
prevedere che, in forza della stessa, possa  escludersi  tout  court,
sempre e in ogni caso, la riconoscibilita' dell'equo indennizzo  alla
parte soccombente. 
    3.2.2.  -  Sotto  il  secondo  profilo   (possibilita'   di   una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna tale
da renderla compatibile con il parametro pattizio  come  interpretato
dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi  che  ogni  pur
dovuto tentativo in tale direzione  e'  destinato  a  scontrarsi  con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un indennizzo in misura superiore al "valore del diritto accertato". 
    La lettera di tale ultima disposizione non sembra in  particolare
consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di
ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi  commenti  -
che "il riferimento al diritto accertato dal giudice  costituisca  un
limite nella determinazione del valore della causa cosi' come avviene
per individuare lo scaglione di valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali":  l'analisi  logica  della  frase  e
l'uso  della  disgiuntiva  "o",   rafforzato   peraltro   dall'inciso
condizionale "se inferiore",  evidenziano  inconfutabilmente  che  il
valore del diritto accertato viene indicato, in alternativa a  quello
del valore della causa, come limite alla "misura  dell'indennizzo"  e
non come criterio di determinazione del "valore della causa". 
    Una diversa  lettura  finirebbe,  dunque,  col  tradursi  in  una
interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si
tratta di armonizzare la norma interna  al  parametro  costituzionale
rappresentato dalla CEDU, in forza del richiamo ai "vincoli derivanti
... dagli obblighi internazionali"  contenuto  nell'art.  117  Cost.,
dovendo, in tal caso,  una  siffatta  opera  di  raccordo  tra  fonte
interna e fonte internazionale in  conflitto  essere  necessariamente
rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con  le  consequenziali
statuizioni, di cui al dispositivo.